Lavorare al Policlinico Umberto I. Il "miracolo quotidiano" del personale sanitario. Roma, Italia. Anno 2017.

lunedì 30 ottobre 2017
"Sono al pronto soccorso del Policlinico Umberto I. 
Accompagno mia moglie: è stata tamponata e ha preso il classico colpo di frusta. Siamo qui da quasi quattro ore. 
Le hanno dato un pezzo di carta con un numero. 
Per ora, nessuna chiamata. 
In tutto questo tempo non si è visto nessuno. Accanto a noi è seduta una signora cinese con una mano fratturata, di fronte due turisti francesi. 
Entra un barbone. La guardia lo chiama Andrei e lo fa sedere poco distante da noi. La sala è praticamente vuota. Mi alzo per allontanarmi dal fetore nauseabondo che si sprigiona dal corpo del povero clochard. La signora cinese fa lo stesso. I due turisti francesi ci guardano incuriositi. Faccio due passi nel corridoio e raggiungo l'ingresso. Osservo distrattamente il pavimento: è rovinato e in molti punti rabberciato con dell'orribile scotch giallo. Istintivamente scatto delle foto. Non so neanche io perché. Torno a sedermi. Passa altro tempo. 




I francesi sono nervosi e capisco dai loro commenti che si stanno interrogando su dove siano capitati. Finalmente qualcuno chiama mia moglie per le radiografie. Ci spostiamo. Lei va in radiologia, io in un'altra sala d'attesa. Il tempo scorre impietoso. E' notte fonda e noi siamo qui dal pomeriggio. Mi alzo e di nuovo esco in corridoio. 

Passeggio nervosamente guardandomi intorno. Qualcosa attrae ancora una volta il mio sguardo, lì in alto, di fronte a me. Quello che vedo mi fa inorridire e poi vergognare. Arrivano anche i turisti francesi e pure loro alzano lo sguardo. Uno dei due tira fuori il cellulare e scatta una foto. Il suo gesto mi devasta, mi trafigge il cuore. Scatto allora una foto pure io. Stupidamente, voglio far credere che anche io, cittadino romano, sono meravigliato. Ma loro non mi guardano. Peccato. Torno a sedermi e chiudo gli occhi. Penso. All'una di notte usciamo. E' buio pesto, non c'è anima viva. Scorgo i turisti francesi che cercano disperatamente di telefonare per prenotare un taxi. Mi avvicino e chiedo se abbiano bisogno di aiuto. Loro mi guardano come se fossi Gesù Cristo apparso ai discepoli. Mi confidano che sono scappati dopo ore e ore di attesa. Cerco di farfugliare delle scuse in un francese inventato, poi passo all'inglese. Uno dei due mi fa vedere le foto che ha scattato: sono ovviamente le stesse che ho scattato io. 

Mi viene quasi da piangere, non so cosa dire, per un assurdo gioco di sensi di colpa mi sento responsabile. Per espiare, mi offro di chiamare il taxi per uscire velocemente da quella situazione. Dopo 10 minuti l'auto arriva. I francesi sgattaiolano dentro e mi salutano con la mano. Anche noi scappiamo. Devastati dall'esperienza appena fatta: più del tamponamento.

Stamattina mi sono svegliato prestissimo e ho acceso il cellulare. Sono andato nella galleria e ho guardato le foto. Volevo commentarle,  ma non sapevo come. Avevo paura di condividerle. 
C'ho pensato tanto, ho cercato di essere lucido, ponderato, equilibrato. 




Sarebbe facile scagliarsi contro questa vecchia, nobile, decaduta struttura, il Policlinico, deriderla, umiliarla, vomitare insulti, troppo facile. 
Ma questo è il luogo dove lavoro da più di venticinque anni, la mia seconda casa, è ed è stata la mia occasione, il trampolino verso il futuro, la scuola che mi ha insegnato a vivere, a sopravvivere, a sognare mete impossibili, a non arrendermi mai. 

Potrei distruggerlo con poche, crude parole, abitudine oggi consolidata, ma non posso. 
Guardo le sue ferite che sono anche le mie e piango per lui, impreco per lui, come tante volte ho imprecato e pianto per me. Lo vedo agonizzare ogni giorno, lui che mi ha dato la vita, una dignità una famiglia, un presente e un futuro e non posso, proprio non posso essere io a dargli il colpo di grazia. 
E allora penso, per non giudicare. 
Lavorare nella sanità è uno dei compiti più difficili che esistano, se ci credi, se lo fai con passione. Lavorare al Policlinico, in questo Policlinico, è qualcosa di incredibile. Se sei debole, soccombi, se sei forte, impari. Io ho deciso di imparare. 
La vita qui è una lotta, contro tutto e tutti. Solo chi vive questa realtà può capirla. È un percorso tortuoso, pieno di ostacoli, percorrendo il quale rischi ogni poco di finire risucchiato in un abisso senza fine. Devi morire e risorgere continuamente, devi inventare, progettare, realizzare solo con le tue forze e devi cancellare la paura dell'insuccesso con il solo pensiero di fare del bene a chi affida a te la sua speranza di vita. 
Chi lavora qui è solo. Spesso si sente colpevole. Come me, ieri notte.  

Solitudine e senso di colpa sono costantemente al tuo fianco. Perché tu sei parte di questo luogo e perché benché tu compia sforzi sovrumani, non riesci a cambiarlo. Ma lui ti cambia. Molti mi hanno sentito dire più volte che dopo venticinque anni di Policlinico potrei tranquillamente andare a combattere l'ISIS a Mosul da solo. Ovviamente è una provocazione, ma se penso a come ero prima e come sono ora, la cosa non è tanto assurda. 

Qui ho imparato ad essere muratore, elettricista, idraulico, carpentiere, pittore, ho sviluppato tecniche di immunogenetica mentre montavo zanzariere alle finestre, qui ho capito che fare il biologo comportava una serie di altri compiti che poi nella vita mi sono serviti, eccome. E in mezzo a muri cadenti, infissi tenuti con lo scotch, lottando per sopravvivere in sotterranei bui, sporchi e maleodoranti, io e tanti altri abbiamo creato una struttura d'eccellenza, rinomata, stimata in Italia e in Europa.

Creare l'impossibile qui si può. Vorrei dirlo ai due turisti francesi approdati al pronto soccorso che si guardano intorno con aria costernata e racconteranno di ritorno in patria delle ferite di Roma e di ciò che oggi è o meglio non è. Ma vorrei dirlo anche ai nostri politici che non sanno, non vivono, non conoscono e blaterano frasi senza senso che umiliano più delle crepe, più della disorganizzazione, più dell'orrendo pavimento sulle cui voragini devi sperare di non inciampare ad ogni passo che fai. 

Già, creare l'impossibile. In questo luogo dove la fragilità umana deve convivere con la fatiscenza e l'abbandono ci siamo riusciti. Lì, dove è il potere, dove si dovrebbe avere cura della cosa pubblica, purtroppo ancora no. È questa la vera sciagura di Roma e dell'Italia intera."

Dr. Luca Laurenti

2 commenti:

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