"Sono al pronto soccorso del Policlinico Umberto I.
Accompagno mia moglie: è stata tamponata e ha preso il classico colpo di frusta. Siamo qui da quasi quattro ore.
Le hanno dato un pezzo di carta con un numero.
Per ora, nessuna chiamata.
In tutto questo tempo non si è visto nessuno. Accanto a noi è seduta una signora cinese con una mano fratturata, di fronte due turisti francesi.
Entra un barbone. La guardia lo chiama Andrei e lo fa sedere poco distante da noi. La sala è praticamente vuota. Mi alzo per allontanarmi dal fetore nauseabondo che si sprigiona dal corpo del povero clochard. La signora cinese fa lo stesso. I due turisti francesi ci guardano incuriositi. Faccio due passi nel corridoio e raggiungo l'ingresso. Osservo distrattamente il pavimento: è rovinato e in molti punti rabberciato con dell'orribile scotch giallo. Istintivamente scatto delle foto. Non so neanche io perché. Torno a sedermi. Passa altro tempo.
I francesi sono nervosi
e capisco dai loro commenti che si stanno interrogando su dove siano capitati.
Finalmente qualcuno chiama mia moglie per le radiografie. Ci spostiamo. Lei va
in radiologia, io in un'altra sala d'attesa. Il tempo scorre impietoso. E'
notte fonda e noi siamo qui dal pomeriggio. Mi alzo e di nuovo esco in
corridoio.
Passeggio nervosamente guardandomi intorno. Qualcosa attrae ancora
una volta il mio sguardo, lì in alto, di fronte a me. Quello che vedo mi fa
inorridire e poi vergognare. Arrivano anche i turisti francesi e pure loro
alzano lo sguardo. Uno dei due tira fuori il cellulare e scatta una foto. Il suo gesto mi devasta, mi trafigge il cuore. Scatto allora una foto pure io. Stupidamente, voglio far credere che anche io, cittadino romano, sono meravigliato. Ma loro non mi guardano. Peccato. Torno a sedermi e chiudo gli occhi. Penso.
All'una di notte usciamo. E' buio pesto, non c'è anima viva. Scorgo i turisti
francesi che cercano disperatamente di telefonare per prenotare un taxi. Mi
avvicino e chiedo se abbiano bisogno di aiuto. Loro mi guardano come se fossi
Gesù Cristo apparso ai discepoli. Mi confidano che sono scappati dopo ore e ore
di attesa. Cerco di farfugliare delle scuse in un francese inventato, poi passo
all'inglese. Uno dei due mi fa vedere le foto che ha scattato: sono ovviamente le stesse
che ho scattato io.
Mi viene quasi da piangere, non so cosa dire, per un
assurdo gioco di sensi di colpa mi sento responsabile. Per espiare, mi offro di chiamare il
taxi per uscire velocemente da quella situazione. Dopo 10 minuti l'auto arriva.
I francesi sgattaiolano dentro e mi salutano con la mano. Anche noi scappiamo. Devastati dall'esperienza appena fatta: più del tamponamento.
Stamattina mi sono svegliato prestissimo
e ho acceso il cellulare. Sono andato nella galleria e ho guardato le foto. Volevo commentarle, ma non sapevo come. Avevo paura di condividerle.
Sarebbe
facile scagliarsi contro questa vecchia, nobile, decaduta struttura, il
Policlinico, deriderla, umiliarla, vomitare insulti, troppo facile.
Ma questo è
il luogo dove lavoro da più di venticinque anni, la mia seconda casa, è ed è
stata la mia occasione, il trampolino verso il futuro, la scuola che mi ha
insegnato a vivere, a sopravvivere, a sognare mete impossibili, a non arrendermi
mai.
Potrei distruggerlo con poche, crude parole, abitudine oggi consolidata,
ma non posso.
Guardo le sue ferite che sono anche le mie e piango per lui, impreco
per lui, come tante volte ho imprecato e pianto per me. Lo vedo agonizzare ogni
giorno, lui che mi ha dato la vita, una dignità una famiglia, un presente e un
futuro e non posso, proprio non posso essere io a dargli il colpo di grazia.
E
allora penso, per non giudicare.
Lavorare nella sanità è uno dei compiti più
difficili che esistano, se ci credi, se lo fai con passione. Lavorare al
Policlinico, in questo Policlinico, è qualcosa di incredibile. Se sei debole,
soccombi, se sei forte, impari. Io ho deciso di imparare.
La vita qui è una
lotta, contro tutto e tutti. Solo chi vive questa realtà può capirla. È un
percorso tortuoso, pieno di ostacoli, percorrendo il quale rischi ogni poco di
finire risucchiato in un abisso senza fine. Devi morire e risorgere
continuamente, devi inventare, progettare, realizzare solo con le tue forze e
devi cancellare la paura dell'insuccesso con il solo pensiero di fare del bene
a chi affida a te la sua speranza di vita.
Chi lavora qui è solo. Spesso si
sente colpevole. Come me, ieri notte.
Solitudine e senso di colpa sono costantemente
al tuo fianco. Perché tu sei parte di questo luogo e perché benché tu compia
sforzi sovrumani, non riesci a cambiarlo. Ma lui ti cambia. Molti mi hanno
sentito dire più volte che dopo venticinque anni di Policlinico potrei
tranquillamente andare a combattere l'ISIS a Mosul da solo. Ovviamente è una
provocazione, ma se penso a come ero prima e come sono ora, la cosa non è tanto
assurda.
Qui ho imparato ad essere muratore, elettricista, idraulico,
carpentiere, pittore, ho sviluppato tecniche di immunogenetica mentre montavo
zanzariere alle finestre, qui ho capito che fare il biologo comportava una
serie di altri compiti che poi nella vita mi sono serviti, eccome. E in mezzo a
muri cadenti, infissi tenuti con lo scotch, lottando per sopravvivere in
sotterranei bui, sporchi e maleodoranti, io e tanti altri abbiamo creato una
struttura d'eccellenza, rinomata, stimata in Italia e in Europa.
Creare
l'impossibile qui si può. Vorrei dirlo ai due turisti francesi approdati al
pronto soccorso che si guardano intorno con aria costernata e racconteranno di
ritorno in patria delle ferite di Roma e di ciò che oggi è o meglio non è. Ma
vorrei dirlo anche ai nostri politici che non sanno, non vivono, non conoscono
e blaterano frasi senza senso che umiliano più delle crepe, più della disorganizzazione, più dell'orrendo pavimento sulle cui
voragini devi sperare di non inciampare ad ogni passo che fai.
Già, creare
l'impossibile. In questo luogo dove la fragilità umana deve convivere con la fatiscenza e l'abbandono ci siamo riusciti. Lì, dove è il potere, dove si dovrebbe
avere cura della cosa pubblica, purtroppo ancora no. È questa la vera sciagura
di Roma e dell'Italia intera."
Dr. Luca Laurenti